Palato Assoluto

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«A Ma’, sa di formaggino»

Quarantaquattro fantastilioni e settordici volte che sento la stessa risposta. Adesso prendo di mira lo spigolo e ci sbatto contro il lobo frontale.

Tutti conoscono il termine orecchio assoluto, quella rara capacità di riconoscere all’istante le note musicali, posseduto da musicisti del calibro di Mozart, Bach e Beethoven. Ma mai avrei pensato di incontrare nella mia carriera lavorativa un palato assoluto. Si chiama Marco Zambardi, romano verace che lavora nel mondo della ristorazione da una vita. Ci siamo conosciuti un paio di anni fa, per un progetto molto particolare, ovvero la standardizzazione di un prodotto basato su di una combinazione di elementi abbastanza semplice.  Ci piace vincere facile, visto anche lo staff di una decina di persone dedicate a questa fase delicatissima.

«A Ma’, sa di formaggino»

Ho avuto la sensazione di trovarmi davanti al personaggio della Disney Anton Ego, il critico culinario del film di animazione Ratatouille anche se meno mefistofelico e più sorridente. E la frase «Io non amo la gastronomia. Io la venero … E se non la venero io NON LA CELEBRO!» mi è risuonata in testa come un campanello. E se Marco avesse ragione e tutti gli altri in staff avessero torto, me compresa? Se davvero quella sua esclamazione fosse un campanello del nostro palato perduto?

C’è da dire che su questo argomento il portale Trip Advisor apre uno scenario di ignoranza culinaria a dir poco impressionante. Ancora mi ricordo la recensione di un utente di genere femminile fatta ad un ristorantino a conduzione familiare, che si lamentava di aver trovato degli aghi di pino nelle patate al forno. Impeccabile fu la risposta dell’oste, ricordando alla signora la sottile differenza tra un ago di pino e il rosmarino. Decisamente da standing ovation.
Divagazioni a parte, si possono leggere pubblicamente recensioni fatte di pancia e non di sostanza. Termini relativistici come “la tagliata non era cotta in modo omogeneo”, oltre a dimostrare una vaga inconsapevolezza del come diavolo si cucina una tagliata, lascia il dubbio che il divario tra realtà e immaginario collettivo si stia ampliando sempre di più.

E me la prendo anche con le varie serie televisive dedicate al mondo della ristorazione e della cucina più in generale. Tutti chef, gusti ricercatissimi, presentazione dei piatti che omaggiano il surrealismo di Dalì, un tocco di equilibrismo del grande Baryšnikov, senza disdegnare la Pop Art rivisitata in chiave rinascimentale. Ma poi, che gusto hanno?

«A Ma’, sa di formaggino»

Siamo abituati ai soliti gusti, compriamo le cose sempre negli stessi posti, supermercati, discount, h24. E non pensate che i grandi chef stellati comprino prodotti migliori dei vostri. E non è un luogo comune. Ne ho incrociato uno dal mio macellaio che tirava su tagli di terza categoria come se non ci fosse un domani. Non conosco il suo menù e non entro nel merito, ma in quel momento ho capito quanto ci siamo disabituati al gusto del singolo prodotto non mascherato da frizzi e lazzi del tipo “al profumo di limone selvatico raccolto all’alba”.
Comprendo le necessità del neuromarketing di trovarsi una nicchia esistenziale, ma leggendo certe descrizioni dei piatti, mi viene da fare i complimenti al copywriter che se l’è inventato. E se il neuromarketing si basa sulle neuroscienze, ovvero lo studio scientifico del sistema nervoso, non possiamo non considerare lo strumento che usiamo: la lingua.

Ora, tutti conoscono la mappa dei gusti: sulla punta il dolce, ai lati l’acido, sul fondo l’amaro. L’abbiamo studiata a scuola, all’università, durante i corsi di degustazione. Per un curioso scherzo delle dinamiche culturali è una delle immagini più diffuse, riprodotte e ricordate della storia scientifica. E allo stesso tempo un classico esempio di Lost in Translation*. È risaputo da anni in ambito scientifico: non esistono sulla lingua delle zone esclusive o più sensibili a un singolo gusto (dolce, salato, acido, amaro, umami), bensì tutta la lingua sente tutti e cinque i gusti allo stesso modo o quasi, ma sembra che questa rettifica non sia ancora filtrata nella cultura generale.

I sensori del gusto nella nostra bocca hanno anche un’importante funzione evolutiva. Ad esempio non è un caso se possediamo un solo tipo di recettore per il dolce, mentre per l’amaro ne abbiamo 25. E se per percepire l’amaro bastano concentrazioni molto basse, per il dolce servono concentrazioni mille volte più alte. Uno strumento di tutela della specie, perché il sapore amaro caratterizza alcune sostanze tossiche o irritanti prodotte dalle piante. Al dolce invece, associato alle calorie, riserviamo una lettura più grossolana proprio per incoraggiarci ad assumerne di più e accumulare energia. Utile quando vivi nella foresta, potenzialmente controproducente in un contesto contemporaneo dove abbiamo cibo ipercalorico disponibile a tutte le ore del giorno. In pratica un Armageddon sanitario auto sponsorizzato.

Il nostro codice genetico non ha ancora fatto in tempo ad aggiornare i dati e ci fa ancora spontaneamente preferire cibi salati, dolci e grassi. Ma l’allenamento, l’educazione al gusto giocano un importante ruolo, perché se è vero che alcuni di noi sono geneticamente più dotati di altri, è vero anche che esplorare sapori diversi, educarsi a sentire le sfumature, porta inevitabilmente ad ampliare le capacità gustative.

«A Ma’, sa di formaggino»

Ho preso un cucchiaio e l’ho tuffato nella salsa. Non al primo assaggio, non al secondo, ma al terzo ….

«A Ma’ … sa proprio di formaggino»

* Un tale scienziato, David Hänig nel 1901 scrisse una tesi collezionando un po’ di dati sulla sensibilità della lingua ai diversi gusti. La tesi è in tedesco e viene tradotta in inglese nel 1942 da un professore di Harvard, Edwin Boring. Boring però fraintende qualcosa o forse il testo di Hänig si prestava a fraintendimenti, insomma fatto sta che nel testo in inglese arriva la mappa che tutti conosciamo senza giustificate basi scientifiche. Negli anni Settanta la mappa viene contestata e superata, in ambito scientifico.

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