«Mara, che ne dici se nel prossimo articolo parli di moda e Covid19?»
… Gaudio e tripudio. Perché insistete nel farmi parlare di questo argomento? Fior fiore di testate e giornalisti, da marzo ad oggi, hanno già raccontato passo a passo le vicissitudini del settore.
Personalmente ho ritardato il cambio di armadio, acquistato alcuni capi (in negozio, non in modalità virtuale) e mi sono perplessa della moda milanese di andare in giro con la mascherina a sottogola. Ma si sa, io ho un’opinione su tutto.
Faccio però un passo indietro. Non vorrei che qualcuno pensasse che la mia ritrosia sull’argomento sia dettata dal fatto che mi vesto come un albero di natale o che, aprioristicamente, io odi la moda. Quello che non sopporto è che, se non sei à la page scatta nell’altro la necessità fisiologica di giudicare. Perché alla fine è tutto qui. Una questione di giudizio.
Formulare dentro di sé, o esprimere, un giudizio di valore, di merito, di approvazione o di biasimo su persone o cose. Ho come l’impressione che, ad oggi, sia diventata questa la nuova Moda. E lo faccio anche io, non mi nascondo certo dietro ad un dito.
Tendo però a contestualizzare.
Cosa vuol dire? Sono al supermercato, jeans e camicetta, borsa “da donna” – quelle che contengono anche le carte delle caramelle che ti ripromettevi di buttare 3 anni fa per capirci – ballerine, e un trucco più da abitudine che da velleità. Giro con il “cestino” sadico, quello con le ruote, al quale non si alza mai il manico se non dopo aver effettuato una mossa alla Hulk.
Vedo una signora tacco 12, scarpe obbligatoriamente rosse. Vestita di tutto punto, classico tubino magari un po’ troppo stretto su fianchi e seno. Tirata a lucido tra capelli vaporosi e trucco ben visibile. La borsa ha le dimensioni di un portafoglio con relativa catenella. Lei invece gira con il carrello, quello vero, mica come il mio. Ci incrociamo, ma dietro la mascherina faccio fatica a leggere le sue espressioni facciali.
La mia pompa sodio-potassio comincia a snocciolare una serie di reazioni a quello che vedo. “Esagerata! – il primissimo pensiero che emerge dalla mia massa spugnosa – ma perché ti conci così per andare a fare la spesa? – il secondo. Mi autocensuro sul terzo, solo perché ho i miei parametri di eleganza e quei colori azzeccati con la colla di elegante non hanno nulla.
Situazioni simili sono capitate a tutti, e se si vuole essere onesti con sé stessi, anche i relativi giudizi magari in alcuni casi scadendo anche nel triviale. Esercitiamo la nostra facoltà del giudizio e così facendo reputiamo chi o ciò che ci circonda in un modo o in un altro.
Noi siamo ciò che gli altri dicono di noi. Insomma, siamo la nostra reputazione. Da questa dipendono la nostra identità e in alcuni casi persino la nostra esistenza. Eppure non ci appartiene. È un prodotto sociale, un giudizio – a volte una sentenza – valoriale emessa dal contesto di riferimento. È il contesto che interpreta e valuta ciò che diciamo, facciamo, scegliamo (o non diciamo, non facciamo, non scegliamo).
Tale giudizio si basa sul livello di coerenza tra le nostre scelte o i nostri comportamenti e le regole o valori condivisi dal gruppo di cui facciamo parte. L’influenza sociale ci spinge in sostanza ad omologarci alle aspettative del nostro gruppo di riferimento. E tutto questo con un solo scopo: essere accettati e, di conseguenza, costruire la nostra identità.
C’è un però.
Il contesto sociale è un sistema simbolico (inteso come fatto di simboli) che basa le proprie valutazioni sull’interpretazione di ciò che percepiamo. Insomma, sembra il solito cane che si morde la coda. La costruzione della nostra identità segue le regole di una realtà percepita o, come la definisce Matteo Flora uno dei maggiori studiosi italiani di Reputazione, di una rappresentazione socialmente negoziata.
Ma ora che la nostra rappresentazione della realtà non è stata piu negoziata durante il lock down è cambiato qualcosa? Secondo me sì. Ho notato un livello di polarizzazione dei comportamenti generali che sembrano fare da specchio alle micro realtà nelle quali le persone hanno vissuto in questi mesi – per farla semplice, il loro nucleo familiare.
il comportamento manifesto di alcuni bipedi che razzolavano per le strade mi ha detto molto del sopracitato nucleo familiare, che, ergendosi ad unico contesto socialmente condiviso per un lasso di tempo sufficiente ad addestrare il mio gatto a spegnere le luci di casa, sta riversando in un contesto più ampio la loro essenza.
Buona o cattiva, ne sono stata giudice anche io, come lo siete stati voi mugugnando in fila perché gli altri non rispettavano le distanze sociali richieste.
Proverò con un esperimento sociale: andrò in giro con i calzini bianchi e i sandali alla Sturmtruppen maniera. Chissà se la Moda potrà digerire questa polarizzazione.