C’erano una volta tre computer – uno analogico, uno digitale e uno sub-mesonico. Vivevano tutti e tre felici in una interfaccia complessa a tre uscite, quando …
Mi sa che ho sbagliato argomento, ma la risposta è 42, l’asciugamano l’ho trovato, addio e grazie per tutto il pesce.
Probabilmente queste tre citazioni non vi diranno nulla, a meno che voi non siate degli appassionati di Douglas Adams e non abbiate fra i vostri tomi esposti in libreria Guida Galattica Per Autostoppisti.
Come Douglas anche io a scuola non ero esattamente una amante dello sport, anche se ho praticato per 5 anni nuoto, tennis e pallavolo. Il tennis è stata una scelta spintanea di gusto vittoriano, il nuoto doveva alleggerire la mia mole del tempo, e dopo uno stacco di circa 10 anni la scelta della pallavolo fu fatta perché adoravo i cartoni animati di Mila e Shiro.
Fortunatamente il mio imprinting legato ai comics era cominciato con Capitan Harlock e alla fine mi sono data alla fantascienza – in fin dei conti una laurea e un master in psicologia sono pura fantascienza per chi si ritiene mediamente sano.
Insomma, io e lo sport – inteso come rincorrere qualcosa, sudare, sbuffare, fare pesi, panche e panchine – viviamo in un costante tentativo di scansarci a vicenda. Perché anche se – come recita una delle tante pagelline che ti rifilavano – Risulta essere piuttosto brava a cricket – e lì ho capito per la prima volta cosa fosse il copia e incolla come strumento strategico – è una schiappa sul fattore cruciale: la perseveranza.
Si, lo ammetto, nello sport sono diabolicamente incapace di continuare a fare sempre la stessa cosa ogni volta. Per questo amo di più lo svago.
Una passeggiata senza meta nei boschi? Fatto salvo l’orso Papillon e qualche incontro ravvicinato con la fauna locale, assolutamente sì. Una partitella a tennis. Una all’anno, non di più, perché non voglio che la sciatica vada far compagnia al gomito del tennista.
Che poi, fare sport e fare attività fisica non sono esattamente la stessa cosa. Abito al quinto piano senza ascensore. Pensate tutte le volte che sono al secondo, mi accorgo che ho dimenticato qualcosa (prima era il portafoglio o le cuffie o il cellulare, un paio di volte le scarpe, oggi la mascherina o il gel disinfettante) e devo risalire e riscendere. Non ho la macchina per scelta. Una sola in casa per la famiglia basta e avanza. Mi muovo solo con mezzi pubblici. Sì, lo faccio anche adesso, con mooooooolta attenzione e con orari improponibili. E se l’autobus o la metro sono troppo pieni, attendo il successivo. Faccio la spesa e me la porto a casa. E ho due gatti, la pappa pesa.
Come attività fisica posso quindi annoverare cardio fitness, sollevamento pesi e resistenza.
Sono però andata in palestra, lo ammetto. Con il Personal Trainer, ammetto anche questo. Ed era divertente. Si chiacchierava, ci si scambiava idee, opinioni, gossip. Era diventato il mio angolo di sfogo creativo, parlando di stupidaggini. Poi è finito tutto. In realtà era finito il budget e io, da sola, in palestra, NON CI VADO.
Per il problema di cui sopra. La perseveranza.
Perché già da un po’ avevo capito che la perseveranza è la tendenza a ripetere più volte, in modo ossessivo e stereotipo, un comportamento – o una parola o frase – anche se questi non sono più appropriati alla situazione.
Si spoglia un po’ di tutte quelle accezioni positive, non vi pare? Specialmente la parte finale. E senza tirare in mezzo frasi fatte che inneggiano a credi religiosi con sopravvalutate presenze diaboliche.
Per questo preferisco lo svago, il riposo temporaneo, come distrazione dalle normali occupazioni. E su questo sono un asso piglia-tutto. Fare sport, in generale mi era diventato un secondo impegno, un’occupazione a tutti gli effetti. Soprattutto aveva acquisito il sapore della routine settimanale.
E non vi è nulla di più distruttivo della routine. Mi abbassa il Q.I. a 12, scattano le nevrosi ossessive compulsive e divento ancora più insopportabile di quanto non sia già. Un ennesimo ritmo di attività monotono e ripetitivo: gli allenamenti sempre lo stesso giorno, sempre dalle/alle, sempre le stesse facce, sempre gli stessi esercizi. Almeno durante le partite mi divertivo, c’era il gusto dell’imprevisto. Mi concentravo su qualcosa che aveva un inizio ed una fine, se vogliamo quasi fine a sé stesso.
Per me è questo il bello.
Da una parte ammiro chi fa sport, a livello agonistico o dilettantesco, non importa. Anche se sono rimasta perplessa in questo strano 2020 di quanti sportivi fosse dotata la regione Lombardia. Li ammiro per la loro capacità di non trasformare qualcosa di così ripetitivo in uno strumento per staccare la spina.
Io se stacco la spina da una cosa devo infilarla in qualcosa d’altro. Per questo amo lo svago.
Un buon libro, una partita a carte (preferisco quelle in presenza ma va bene anche Piramid o FreeCell), anche mettere in ordine l’home-office è uno svago. I gatti, un buon bagno caldo, prepararmi i pop-corn per assistere agli scambi tra leoni da tastiera su Facebook o dedicare un giorno intero al mio compagno senza rispondere al cellulare. Giocare a vegeto (citazione dal film Pretty Woman) senza le fragole, lo champagne o gli stivali altezza coscia – troppo scomodi per giocare a vegeto – o giocare a vegeto con gli amici. In quei casi il tasso alcolemico medio si aggira intorno all’alcool puro, ma a volte il bello è anche questo.
L’unica cosa che lo svago non potrà mai dare è lo sviluppo di quella socialità necessaria in fase evolutiva.
Quindi sono contenta che da piccola lo sport abbia fatto parte della mia vita.
Solo che adesso il mio sport è lo svago.
E ricordate: anche se tutto va male, la ragazza ti lascia, perdi il lavoro, c’è sempre un campionato che inizia a settembre. (Nick Hornby)