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Forse non tutti hanno riconosciuto il titolo dell’opera di Donald Norman. Debbo dire che fu una delle mie letture preferite per l’esame di psicologia del lavoro.
E lo so che suona strano.
Infatti il libro (che vi consiglio vivamente di leggere, almeno per allentare la frustrazione da telecomando multifunzione), parla del design degli oggetti quotidiani. Dalle tastiere del PC al verso di apertura delle porte, l’autore vive insieme a noi la resa che ci coglie di fronte a oggetti che non siamo in grado di maneggiare.
Il fatto è che oggi, gli oggetti, non sono solo fisici, tangibili, spostabili con un calcio o una mazza. Sono anche intangibili, come le app, le icone, il fantastico drag-and-drop. Perché, pensavate che dietro a questo non ci fosse un design?
No, non intendo l’iconcina fighetta, intendo proprio il significato della parola design, ovvero progettazione. Perché questo è. Punto.
Ora, siamo sinceri… le design week me le sono fatte quasi tutte, sia dentro che fuori i saloni, sopportando malmessamente file, code, spintoni, maleducazione e afrori vari. E ne ho viste un sacco di cose, compreso un tavolo che riproponeva una struttura a tessitura porfirica ma senza le inclusioni di vetro… insomma, un tavolo groviera, a buchi larghi. E il primo pensiero che mi è balzato in testa è stato: E lì che diamine ci appoggio?
Era bello, nulla da dire, molto naturale. E poco funzionale. Sembrava più uno stendardo per l’ego del disegnatore. E potrei citarvene mille altre, anche tra le più famose, tipo la Lampada ad Arco. Disegnata nel 1962 da Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Arco di Flos è la più iconica delle lampade, nata per avere un punto luce sopra il tavolo senza il vincolo della predisposizione elettrica. Il foro nella sua base in marmo di Carrara serve a spostarla con facilità: basta infilare il manico di una scopa e usarlo come leva. Peccato che mio padre, alto 1.90, ci sbatteva la testa.
Le tecniche di progettazione dipendono dagli obiettivi
Le continue e rapide trasformazioni del mondo che ci circonda, dei suoi contenuti e della sua organizzazione spazio-temporale (lo so, sembra un’esagerazione ma basti pensare al drastico passaggio dalla scrivania in ufficio a quella “a casa”) dovrebbero risvegliare nei designer una visione un po’ più antropocentrica di ciò che fanno. L’adattamento dell’oggetto o della macchina all’uomo, è un filone che sembra sia stato perso.
Basti pensare ai casi di cattivo funzionamento del sistema uomo-macchina come sintomo di inaffidabilità dell’oggetto. La faccio semplice: un lavandino. Troppo profondo, anche se sembra una ciotola votiva, va bene per soggetti fino ad una certa altezza, sotto la quale sei costretto a prendere un rialzo per accedervi. Poco profondo e la volta che hai litigato con il gatto e sei isterico come una biscia, apri convulsamente l’acqua al massimo e allaghi almeno i 20 cm introno all’oggetto.
Eppure il lavandino come oggetto in sé è affidabile, fa quel che deve.
E se usciamo da un rapporto diretto tra l’uomo e l’oggetto e lo mettiamo in un contesto in cui più uomini interagiscono con più oggetti… beh, la cosa si complica ulteriormente
Ma senza farla complicata, penso sempre al telecomando o alla media dei siti web delle istituzioni. E giuro che in alcuni momenti, mi sento un’incapace.
Datosi che non mi ritengo esattamente una scimmia bonobo, possiamo dire che la questione è più dannatamente complessa: siamo alle prese con oggetti mal progettati. Gli inganni e i paradossi del cattivo design lo viviamo tutti i giorni e innescano una interazione perversa con tanti oggetti di uso quotidiano.
Ciò che i designer, come i progettisti o gli ingegneri dimenticano nella foga di ottenere l’obiettivo primario è che usarlo non è un semplice gesto materiale.
Nella nostra esperienza di utenti convergono aspetti tecnologici, processi cognitivi, comportamenti relazionali, connotazioni estetiche, sensazioni emotive.
Il design efficace e a misura d’uomo è quello che sa combinare psicologia e tecnologia. Pensate alle istruzioni per il montaggio dei mobili IKEA (dai, tutti prima o poi sono incappati in quei meravigliosi disegnini che sa seguire anche il mio gatto). E pensate all’attenzione che i loro designer, ingegneri e progettisti hanno impiegato per realizzare un prodotto che possiamo montare da soli!
Mi viene in mente la scena di Frankenstein Jr, quando Gene Wilder esclama “Si… Può… FAREEEEE”.
Bene, cari designer, progettisti e smanettoni dei siti: siete chiamati a realizzare prodotti nuovi ma soprattutto facili da usare, comprensibili e, perché no, capaci anche di dare piacere.
Perché per realizzare e pensare prodotti e servizi “umani” è necessario cambiare la nostra idea del mondo.